Prologo
Dieci anni prima
Il corpo era molto più pesante di quanto immaginasse. Com’era possibile che una persona giovane e magra pesasse tanto?
La spinse verso l’apertura e poi giù con la suola dello scarpone. Srotolò il panno di iuta e prese gli attrezzi che gli servivano, li depositò nello zaino e se lo caricò in spalla, poi scese anche lui.
La trascinò sul terreno fino a un punto preciso, quindi la sistemò con la schiena adagiata alla parete, in modo che i suoi occhi senza vita lo vedessero lavorare. Ci volle un po’ di tempo, ma una volta finito non avvertì quel senso di compiutezza che aveva sperato di provare. D’altro canto, nessuno l’avrebbe mai vista. Non laggiù.
Camminando all’indietro, si fece strada tenendo la testa bassa e le spalle piegate in avanti, cancellando con un piccolo pennello che aveva nella borsa ogni traccia che indicasse che qualcuno era stato lì. Squittii e fruscii accompagnavano i suoi movimenti. Sembrava un altro mondo laggiù. Si sentiva al sicuro, libero. Non voleva andare via. In quel momento pensò di tornare indietro e stendersi a terra, chiudere gli occhi e unirsi a lei in quel luogo di eterno riposo. Un buco nero per una puttana che lo aveva rifiutato.
Arrancò per districare la giacca che si era impigliata intorno allo spuntone di una roccia. La risalita fu più difficile della discesa. Si aggrappò alle sporgenze della parete e si issò su, fino a uscire. Facendo scivolare di nuovo il coperchio sull’apertura, si assicurò di non aver lasciato dietro di sé indizi visibili. Gli bastò una rapida occhiata per capire che nessuno lo aveva visto.
Tornato all’auto, gettò lo zaino nel bagagliaio. La temperatura era scesa negli ultimi giorni e l’inverno già digrignava i denti all’orizzonte come un cane famelico. A lui non piaceva l’inverno. Né il freddo. No, lui preferiva le lunghe notti d’estate in cui poteva vagare per ore e ululare come un lupo in calore alla luna che solcava il cielo pieno di stelle.
Sentì qualche goccia di pioggia e balzò in auto prima che i nuvoloni neri si scaricassero. Aveva sistemato ogni dettaglio. Ora sarebbe andato tutto bene. Era al sicuro.
Soltanto il giorno dopo avrebbe scoperto che il suo incubo era appena cominciato.
Capitolo 1
Conor Dowling si fermò davanti ai cancelli della prigione di Mountjoy e respirò a pieni polmoni l’aria di città. Era la stessa aria che aveva respirato tra quelle pareti negli ultimi dieci anni, ma chissà come sembrava più fresca là fuori. Finalmente era libero. Emise un lungo sospiro, si gettò in spalla la sacca che conteneva i suoi miseri effetti personali e mosse un secondo passo verso la libertà. Da solo.
Non era venuto nessuno a prenderlo. Non c’erano nemmeno i giornalisti. Ma d’altronde cosa poteva aspettarsi? Dopo essere stato dichiarato colpevole e condannato a trascorrere la parte migliore della vita, i suoi vent’anni, rinchiuso tra le grigie mura della prigione, il clamore intorno alla sua storia si era raffreddato al punto da confondersi con la neve.
Ascoltò i rumori della città mentre si incamminava, un piede davanti all’altro, senza guardarsi indietro.
Arrivato a Ragmullin, Conor si fermò per un attimo a guardare la villetta a schiera dall’altro lato della strada. Non era cambiata di una virgola in quei dieci anni. A quanto pareva nessuno aveva mai nemmeno tagliato l’erba. Erano ancora le prime ore del mattino quando attraversò la strada e aprì il cancello scricchiolante che penzolava da un unico cardine. Non aveva la chiave, così sollevò la mano per bussare alla porta. Era casa sua, eppure eccolo lì, come un estraneo. Abbassò la mano e raggiunse la finestra sul davanti. Il riflesso di uno sconosciuto lo fissò di rimando.
Era un uomo di trentacinque anni ormai, alto e magro, la testa ricoperta di una stoppia irregolare. Non c’era più traccia della capigliatura fluente e lunga fino alle spalle che sua madre aveva definito incontenibile. A quattordici anni, gli aveva regalato un rasoio a batteria di seconda mano, dal quale era rimasto talmente affascinato da iniziare a rasarsi non solo la testa, ma anche il corpo. Ed era proprio ciò che voleva fare adesso. Le dita gli prudevano per la voglia di trovare un rasoio e sentire la testina affilata scivolare giù per il petto e le gambe eliminando la peluria. Una vera liberazione.
Tornò alla porta d’ingresso. Tentò di muovere il chiavistello. Si aprì. Mise un piede all’interno, sul pavimento in laminato consumato, e poi l’altro. L’odore familiare fu la prima cosa che riportò a galla i ricordi.
L’aroma pungente di pancetta e cavolo, insieme a quello di grasso stantio, lo avvolse da ogni parte. Com’era possibile? Conor sapeva che almeno da quattro anni sua madre riceveva pasti a domicilio da un ente benefico. Gliel’aveva detto il suo amico Tony Keegan. Bell’amico, pensò. Almeno lui gli aveva fatto visita in prigione ogni due mesi. Ma Conor aveva la sensazione che lo avesse fatto solo per controllare che fosse ancora rinchiuso per bene là dentro. Sua madre non era mai andata a trovarlo.
Aprì la porta del salotto, aspettandosi che fosse vuoto. Mandando giù un respiro profondo di aria fetida, vide sua madre seduta su una poltrona sbiadita e logora. Sembrava più alta di quanto ricordasse, ma poi notò che i piedi della poltrona erano sollevati su delle assi di legno.
Vera Dowling aveva solo sessantacinque anni, ma era consumata dall’artrite reumatoide, che la faceva sembrare più vecchia di vent’anni almeno. Restando immobile alle sue spalle, notò le mani nodose avvinghiate intorno ai braccioli della poltrona. Lei si voltò lentamente.
«Oggi è il gran giorno, vero?».
La sua voce un tempo era forte e tagliente. Era ancora tagliente, questo Conor glielo concedeva, ma aveva perso tutta la forza.
«Sì, mamma. Sono a casa».
«Spero che non ti aspettassi una festa con i palloncini e le bandierine. Non è proprio nel mio stile».
«Non mi aspettavo niente».
Però rimase dietro la poltrona. In prigione aveva guardato in faccia anche i criminali più pericolosi, e lì a casa invece si sentiva come uno scolaretto spaventato dal bullo della classe.
«Vieni qui davanti dove posso vederti, ragazzo».
Non voleva affrontarla, ma alla fine riuscì a far passare il messaggio dal cervello ai piedi e si spostò di fronte a lei.
«Non ti davano da mangiare in quel posto?». Sollevò una mano gonfia; tastò tutto intorno, sul fianco della poltrona, e trovò il bastone da passeggio. Brandendolo come una spada, glielo puntò contro, conficcandoglielo nel petto. «Un mucchio di ossa, ecco cosa sei. Ora che sei tornato, puoi cominciare a cucinare per tutti e due. Puoi anche disdire quel servizio di cibo di plastica».
Facendo un passo indietro, lontano dalla portata del bastone, Conor commentò: «Cibo di plastica?»
«Qualunque cosa fosse quella roba, non li chiamerei certo pasti. È solo la vecchia signora Tone che se ne va in giro con le braccia cariche di contenitori, e quando arriva da me è tutto freddo. Come possono aspettarsi che io riesca ad accendere il microonde con queste dita bitorzolute?».
Conor stava per dire che avrebbe potuto comprare uno di quei nuovi modelli digitali, ma si trattenne. Sua madre stava mostrando tutti gli atteggiamenti prepotenti che ricordava sin dall’infanzia; non avrebbe mai potuto vincere né quella né altre discussioni. Era come se gli ultimi dieci anni si fossero appena accartocciati su sé stessi e in quella casa non fosse cambiato assolutamente nulla. Ma lui sì.
Strofinandosi la testa, sentì che iniziavano a spuntare i capelli ispidi e gli prudettero le mani al pensiero di salire al piano di sopra per recuperare il rasoio, sempre che fosse ancora là. Suppose di sì; a giudicare dall’aspetto del salotto, sembrava che sua madre avesse dormito al pianterreno per anni. Allora lo travolse un pensiero. Avevano solo un bagno e una toilette, ed erano al piano superiore. Come faceva a…? Abbassò lo sguardo sulla sacca di urina che sua madre teneva nascosta tra le gambe piene di vene.
«Sono felice che tu sia a casa, figliolo», disse lei, tendendo la mano. Lui infilò le sue nelle tasche dei jeans con fare risoluto. «Puoi cucinare per me. Ti hanno insegnato qualche nuova ricetta in… quel posto?».
Stringendosi nelle spalle, Conor raggiunse la finestra e fissò fuori attraverso l’unto e lo sporco. Passò una mano sul vetro, gli rimase appiccicata alla patina sulla parte interna della vetrata. Dove diavolo pensava che fosse stato? A una scuola di cucina?
«Vado a farmi un bagno», disse e si voltò per andarsene. Allora lei tese una mano e lo afferrò per un braccio. Gli venne la pelle d’oca mentre cercava di divincolarsi. Ma lei lo tenne stretto.
«So cos’hai fatto, Conor. Lo so. Quindi sarà meglio che mi tratti bene».
Quando la mano nodosa di sua madre lasciò la presa, Conor corse via dalla stanza, quasi inciampando sul borsone che aveva scaricato all’ingresso. In cucina, scrutò per un istante il disordine, la credenza di sua madre, che torreggiava in un angolo, accanto a un bidone della spazzatura traboccante. Gli odori gli appestavano le narici e i vecchi ricordi minacciavano di travolgerlo, come un diluvio biblico.
Per distrarsi, fissò fuori dalla piccola finestra. Ed eccolo là. Ancora in piedi. Il suo capanno, il suo luogo di fuga, il suo rifugio dalla realtà, che si ergeva come un castello in mezzo all’erba rada e ai mobili abbandonati.
Ma quello cos’era? Si chinò sopra il lavello, pieno di contenitori di plastica, e cercò di guardare meglio. Ma fu inutile. Allora aprì la porta sul retro e uscì in giardino, dove l’erba appiattita creava un sentiero fino alla porta del capanno. No, non si era sbagliato. Il lucchetto della porta era lì appeso, aperto.
«Mamma! Chi diavolo è entrato nel mio capanno?».
Conor si fermò in mezzo al caos del capanno che un tempo era stato il suo porto sicuro. Gli attrezzi sembravano esserci tutti, anche se non erano nell’ordine giusto. Né sugli scaffali giusti. Né disposti nel modo in cui li aveva lasciati lui. Scosse la testa. Era passato così tanto tempo che forse se lo stava solo immaginando. Però non si stava immaginando il lucchetto che stringeva in mano. Qualcuno era entrato lì.
Aveva iniziato realizzando delle piccole bambole di legno per le fiere dell’artigianato. Avvertì un rossore accendergli le guance pallide al ricordo di come aveva cominciato, all’età di tredici anni, non molto dopo che suo padre se n’era andato. Era uscito una mattina per andare al lavoro senza nemmeno salutare. Solo quando non era rientrato la sera, avevano realizzato che si era portato dietro una piccola valigia con alcuni effetti personali. Una vita fa, ma Conor se lo ricordava come se fosse ieri. Abbandonato dal padre e lasciato in balia della collera della madre.
La prospettiva di trascorrere il resto della vita insieme a lei era decisamente più agghiacciante del ricordo degli anni passati in galera. Si disse con angoscia che lei aveva solo sessantacinque anni, quindi la possibilità che crepasse a breve era remota. Morte violenta a parte, ovviamente.
Passando un dito sul tornio, fece un passo indietro per lo stupore. Mancava qualcosa. Uno dei suoi macchinari. Quello a cui si era dedicato quando si era stancato di lavorare il legno. C’era solo un’altra persona che sapeva come usare i suoi attrezzi. E non era sua madre.
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